Il giorno della civetta

“Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia  rappresenta il “bestseller” della letteratura dell’antimafia, o il capostipite di una certa letteratura dell’antimafia. Uscito nel 1961 e tradotto in varie lingue, ne esistono diverse edizioni italiane prodotte nei poco più di sessanta anni di vita del romanzo. Per questa recensione mi sono basat* su due edizioni particolari. La prima rivolta a studenti delle Scuole Medie Inferiori e pubblicata, con un’Avvertenza iniziale dello stesso autore Leonardo Sciascia, da Einaudi inizialmente nel 1972 con note di Sebastiano Vassalli e in seguito, accresciuta di un più ampio apparato didattico, nel 1986. La seconda pubblicata dal Corriere della Sera, su licenza della Casa Editrice Adelphi, nel 2002 con una prefazione del giornalista Francesco Merlo. Ad attrarre la mia attenzione proprio i nomi di Sebastiano Vassalli e di Francesco Merlo che con le loro diverse qualità e i loro differenti generi di spiegazione consentono di penetrare meglio il racconto.
La trama è esemplare. In un paese non specificato dell’entroterra siciliano viene ucciso un uomo, a indagare sull’omicidio viene chiamato un giovane capitano dei carabinieri, Bellodi, di origine parmense ed ex partigiano. Il giovane investigatore comprende presto la natura mafiosa dell’accaduto, legato molto probabilmente al mondo degli appalti. In modo abile riesce a ricostruire la trama degli eventi risalendo a un capomafia della zona (“uomo perbene”) a sua volta strettamente legato a un politico deputato al Parlamento di Roma. Proprio questa connivenza fra mafia e apparati distorti dello Stato farà saltare tutta l’operazione. Nessuno risulterà colpevole, e il delitto verrà ricondotto ai “classici” moventi della gelosia passionale. Moventi oltretutto molto sessisti, perché la donna, seguendo un tradizionale stereotipo della cultura patriarcale, diviene la causa e la colpevole indiretta dell’omicidio, come di tanti altri omicidi. Donna “colpevole” per “natura”.
Alle spalle di tutta la vicenda i classici fenomeni di omertà, di delazione e dei relativi conseguenti altri assassini.
Il capitano Bellodi sembra uscirne sconfitto. Ma nel finale del libro, rientrato a Parma, si ripromette di tornare in Sicilia, terra di cui si è innamorato e che quindi forse è qualcos’altro rispetto ai pregiudizi con cui viene solitamente descritta, perché abitata anche da gente onesta.
Ma la Mafia cos’è? La descrive molto bene il “radicale” Leonardo Sciascia (molto vicino politicamente a Marco Pannella): “un sistema che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel vuoto dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debole o manca) ma dentro lo Stato. La mafia insomma altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende ma solo sfrutta.
E Bellodi chi è? Non a caso ex partigiano, è un esponente della parte sana dello Stato. Antesignano di tutta una serie di personaggi che purtroppo hanno spesso pagato con la vita la loro dedizione alla salvaguardia dell’integrità etica dello Stato e della Repubblica. Il giovane capitano è un “cane della legge”, di quella legge che si fa ancella della giustizia e non diventa mero legalismo, quando non serva del potere.
Come sempre raccontare dà voce alla “parola”, quella “parola” che porta alla conoscenza e fa uscire dall’ignoranza sulla quale ogni forma di criminalità fa leva per perpetrare se stessa.


Recensione di Giusi D’Urso, nata a Torino il 25 Novembre 1967, laureata in Filosofia a Firenze, sta completando il percorso per l’iscrizione all’albo dei pubblicisti di Firenze. Da qualche anno si occupa di studi di genere. Appassionata di Scienza. Volontaria di Pax Christi Italia.